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Atleti del digiuno mistico

Parlare di digiuni, in un contesto consacrato al cibo, potrebbe suonare in qualche modo provocatorio soltanto per chi non dovesse considerare che il digiuno appartiene alla storia dell’alimentazione, così come la malattia alla storia della salute e la follia a quella della ragione. Rinunciare volontariamente in tutto o in parte al cibo, non cibarsi in alcuni periodi dell’anno o in alcuni giorni della settimana, scegliere nel ricco paniere dei prodotti alimentari cosa, per motivi religiosi, non ammettere nella propria dieta, è, infatti, pur sempre un modo di esprimere una propria cultura e ideologia dell’alimentazione, di farne, nella negazione, un elemento portante della propria vita quotidiana. Protagonisti di questa rinuncia, coincidente talvolta, soprattutto sul versante dell’ascetismo femminile, con autentiche patologie anoressiche, sono stati monaci, santi e asceti, molto spesso presentati nelle fonti dell’epoca come atleti del digiuno mistico.

Se si tralasciano le enfatizzazioni delle fonti agiografiche, si può avere una quadro della dieta dei monaci nel corso di una settimana e nei diversi periodi dell’anno liturgico, rivolgendosi, per esempio, ai testi di alcune “regole” monastiche in uso nel medioevo. In generale, è possibile riscontrare alcune costanti: l’individuazione di taluni giorni consacrati a un digiuno abbastanza stretto; la suddivisione dell’anno in due periodi, uno dei quali, coincidente con una lunga “stagione” quaresimale (di solito dall’autunno sino a Pasqua), di più marcata astinenza alimentare. Intanto, in una certa misura, ogni giornata è giorno di digiuno, per la distanza temporale che passa tra il momento della levata e l’ora del pasto. San Benedetto prescrive che da Pasqua a Pentecoste si pranzi a sesta e a sera si ceni; dalla Pentecoste e per tutta l’estate si digiuni sino a nona mercoledì e venerdì, mentre negli altri giorni il pranzo venga consumato a sesta; dal 13 settembre sino all’inizio della Quaresima si mangi sempre a nona e, infine, durante la Quaresima, al vespro, pur se è previsto che i vespri siano celebrati con la luce del giorno e che, comunque, i pasti siano sempre consumati senza aver bisogno della lampada. Se si pone mente al fatto che l’ora di nona e il vespro, pur con tutte le incertezze legate all’imprecisa misura del tempo nel Medioevo, si celebravano, rispettivamente, intorno alle 14.30 e dalle 16.30 alle 17.15 (in questo caso il pasto si svolgeva alla fine della celebrazione dei Vespri), non è difficile immaginare quanto potesse essere lunga l’attesa. L’organizzazione della dieta dei monaci secondo due distinti periodi si ritrova anche nella Regola di Isidoro, che prevede due pasti al giorno da Pentecoste fino all’autunno e la sola cena nel restante periodo dell’anno, pur se anche nel primo periodo è prescritto un digiuno di tre giorni a settimana (ovvero la rinuncia al pranzo) a causa dell’arsura del sole estivo. In questa regola sono indicati anche i cibi che i monaci devono consumare: «In entrambi i periodi dell’anno il cibo della mensa sia costituito da tre vivande, in verdure e legumi e, se è possibile averne anche una terza, frutta. Analogamente, la sete dei fratelli verrà appagata con tre bicchieri [di bevanda]. Per compiere le osservanze quaresimali, poi, come è consuetudine, dopo aver digiunato si accontenteranno tutti di pane e acqua, e si asterranno dal vino e dall’olio» (§ IX). Presso i certosini – secondo le Consuetudini di Guigo (XII secolo) – lunedì, mercoledì e venerdì i monaci digiunano a pane e acqua, con la possibilità, a gradimento di ciascuno, di aggiungere il sale; martedì, giovedì e sabato possono cucinarsi dei legumi – con l’aggiunta il giovedì del formaggio – accompagnati dal vino, che, come per i benedettini, non è mai puro, bensì mescolato con l’acqua. Dal 13 settembre fino a Pasqua i monaci consumano un solo pasto; da Pasqua al 13 settembre possono mangiare due volte, il martedì, il giovedì e il sabato. La loro dieta, pur ricoprendo un ruolo importante le erbe e la frutta, non è vegetariana. I monaci, infatti, consumano anche formaggio, pesci e uova, tranne che nel periodo dell’Avvento, quando formaggio e uova sono esclusi. Queste prescrizioni alimentari sono ricondotte a un regime più mite, come accade anche in altri Ordini religiosi, in alcune particolari circostanze. Al priore, per esempio, è consentita l’interruzione del digiuno, a meno che non si tratti di digiuno principale, quando il monastero ospita dei vescovi o degli abati, giacché in tale caso questi ecclesiastici devono sedersi a mensa con lui. Anche in presenza di una malattia grave o nel tempo dei salassi la dieta prescritta conosce delle eccezioni. Nel primo caso, infatti, viene comprato del pesce, mentre nel secondo i monaci possono mangiare per tre giorni consecutivi due volte al giorno, ricevendo del cibo migliore del solito. I fratelli conversi, che sono dediti anche ai lavori manuali quotidiani, vivono seguendo un regime alimentare meno restrittivo rispetto ai monaci del chiostro. Il digiuno a pane, acqua e sale è per loro previsto solo il venerdì e si estende anche al mercoledì in alcuni periodi quali l’Avvento, i digiuni delle Quattro Tempora, le vigilie di Pasqua, Ascensione, Pentecoste e alcune altre ancora. Tutto ciò che avanza e che possa essere utilizzato viene restituito al cuoco, «perché non accada che qualcuno faccia di nascosto un’astinenza non concessa» (Cons. Cart:, § LII).

Riguardo ai certosini troviamo ulteriori elementi, che ci aiutano a comporre il quadro delle loro abitudini alimentari, nell’autobiografia – De vita sua – di Guiberto di Nogent, che si sofferma brevemente sugli usi della Certosa francese nel 1114. La domenica i monaci ricevono dal procuratore la provvista di pane e legumi, con l’aiuto dei quali cuociono nella propria cella sempre lo stesso genere di pulmentum. Al pane e ai legumi affiancano, più raramente (la domenica e i giorni di solennità), il pesce e il formaggio, ma il pesce solo quando lo ricevono da “buone persone”, giacché non ne comprano. Se bevono del vino, esso è così “tagliato” con l’acqua che non dà alcuna forza né procura alcun piacere. Anche Pietro il Venerabille, nel capitolo ventottesimo del De miraculis, offre alcuni sintetici ragguagli sull’uso del cibo presso i certosini. Le linee generali del regime alimentare dei monaci tracciate dall’abate cluniacense ribadiscono alcuni dati che abbiamo sopra ricordato: astinenza perpetua dalla carne, “tam sani quam aegri”; uso di pane nero

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e di vino annacquato (ma il vino non bisognava berlo mai prima o dopo della mensa); consumo del pesce solo se ricevuto “ex charitate” e non comprato; digiuno a pane e acqua la seconda, quarta e sesta feria.

Vero è che in taluni casi si assisterà a una evoluzione dei costumi monastici in senso contrario rispetto alla frugalità e alla sobrietà appena richiamate. A Cluny, dopo l’epoca di Odone, i monaci – come denuncerà Bernardo di Chiaravalle – amplieranno il numero delle portate, andranno alla ricerca di nuovi sapori e si ricovereranno, fraudolentemente, nell’infermeria per potersi dedicare al consumo di carne. Lo stesso abate di Cluny, il già ricordato Pietro il Venerabile, si scaglierà, con toni da invettiva, contro la degenerazione delle abitudini alimentari dei monaci, dimentichi, ormai, di qualsiasi stile di vita parca e persino del consumo di legumi, uova e pesci, per riempire, invece, la propria mensa di maiali, giovenche, conigli, lepri, capre selvatiche, cervi, cinghiali e orsi. Il medesimo fenomeno si svilupperà presso i cistercensi, dove si conoscerà nel tempo una mitigazione degli austeri costumi originari, dapprima concedendo con una certa facilità ai monaci il ricovero in infermeria, nella quale era possibile nutrirsi di carne, per giungere nella seconda metà del XV secolo a prevedere la liceità di una dieta carnivora il martedì, il giovedì e la domenica di ciascuna settimana.

In altri casi, invece, si assisterà a una sorta di spiritualizzazione del cibo, tramite l’opposizione tra il cibo del corpo e quello, più dolce e benefico, dell’anima: San Bruno di Colonia ricorda, in una lettera indirizzata dalla Calabria a un amico lontano, come l’eremo sia il luogo in cui «[…] coltivare assiduamente i germogli delle virtù e nutrirsi, felicemente, dei frutti del paradiso», mentre nella prima Regola di San Francesco di Paola si prescrive – usando un’analogia spesso presente nei testi religiosi – che durante la refezione «l’anima si nutra di continuo con la lettura spirituale». Si giunge, così, a una sublimazione della pesante materialità organica degli alimenti, che, assumendo una specie incorporea, si mutano in pietanza paradisiaca, nettare e ambrosia della vita religiosa, tanto che il cibo, misconosciuto in quanto sostanza fisica, viene per diversa via recuperato e celebrato, assunto, con gli altri lemmi che a esso si richiamano, tra le parole nobili del vocabolario spirituale.

Tonino Ceravolo, storico, saggista