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Un rosso “mantello” di vitigni

A fianco dei sistemi alimentari dell’aristocrazia e dei ceti contadini, del terzo grande sistema alimentare del Medioevo, quello ecclesiastico, rimangono copiose tracce nelle regole che disciplinano la vita quotidiana dei monaci. Pulmentum, pietanza e mixtum sono alcuni dei vocaboli fondamentali della cucina dei monasteri nel Medioevo. Il pulmentum (a giudizio di Massimo Montanari collegato etimologicamente con puls, ossia polenta, e che nel linguaggio attuale potrebbe corrispondere alla nostra minestra) rappresenta l’elemento base della tavola di ogni giorno ed è composto da una mescolanza di legumi e ortaggi, ai quali, in alcune occasioni, potevano essere aggiunti anche uova e formaggi; la pietanza è una porzione supplementare di cibo, divisa tra due monaci; il mixtum, una mescolanza di pane e vino, consumato in momenti diversi della giornata (per esempio dopo l’ufficio del mattino o dopo i vespri) e accordato ai monaci in particolari situazioni, come accade dopo il salasso. La cucina dei monaci, se si abbracciano con uno sguardo complessivo le varie “regole”, è impostata sul nucleo centrale della proibizione del consumo di carne, anche in ragione del fatto che al mancato uso di questo alimento si legano significati simbolici di rinuncia al mondo, di rifiuto della sessualità, di ordine interiore. In ogni caso una cucina sobria, dotata del “gusto” della misura, lontana da eccessi e smodatezze.

Non altrettanto improntato a sobrietà di consumi era il rapporto dei monaci con il bere. Se nella regola benedettina si prescriveva che ciascuno avesse un’emina (circa un quarto) di vino al giorno e si notava una certa diffidenza nei suoi confronti perché «fa traviare anche i sapienti», nelle abbazie medievali il vino, sebbene di solito allungato con l’acqua, divenne un prodotto di larghissimo consumo: «Nel IX secolo, prestando fede allo storico Castelneau, il consumo sarebbe stato di 1132 litri all’anno per monaco [...] – scrive Lèo Moulin – Alla fine del XIV secolo, i monaci dell’abbazia benedettina di Saint-Pierre-de-Bèze ricevevano un litro di vino nei giorni di festa e mezzo litro circa normalmente. Nel 1389, essi ottengono che venga celebrata una Messa per i religiosi morti nel corso dell’anno. Quel giorno, “l’abate offrirà al monastero un pranzo simile a quello di una domenica, con la grande zimarra e con quattro pinte di vino”, cioè un litro di vino per il pasto! Nel XIV secolo, bevevano da 2 a 4 litri di vino al giorno». I monaci piantavano viti dovunque trovassero un terreno di coltura adatto, in Borgogna, nel Beaujolais, nell’Angiò, nell’Aunis, nella Champagne e in Normandia, ma anche in Germania, in Austria, in Spagna, nel Palatinato e in Portogallo, nel Belgio e in Inghilterra. Oltre a ricoprire l’Europa di un bianco “mantello di Chiese” i monaci la rivestirono di un rosso mantello di vitigni, alcuni dei quali pregiati, altri certamente di non grande qualità. La cura per i vitigni aveva indubbiamente una fondamentale ragione liturgica nella celebrazione eucaristica e nella necessità di avere a disposizione un prodotto controllato e non artefatto, ma nella somministrazione di questa bevanda gli ambienti monastici esercitavano anche il “piacere del vino”, poiché la preparavano con un certo grado di fantasia: «I monaci bevevano vino non solo al naturale, ma anche aromatizzato (all’anice, al rosmarino, all’assenzio: come aperitivo), o bollito e speziato con la cannella, i chiodi di garofano, le mandorle dolci, con un po’ di muschio e di ambra […], o ancora con un’aggiunta di miele come il pigmentum, bevuto il Giovedì santo […] e infine aromatizzato con chiodi di garofano, pepe e noce moscata […]» (L. Moulin, L’Europa a tavola, Mondadori, 1993). Per non dire che fu un monaco benedettino, dom Pérignon, a inventare lo champagne alla fine del XVII secolo.

Tonino Ceravolo, Storico, saggista

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